Po (ex
Vienna, ex
Wien)
Vi posto il testo dell'intero articolo a mia firma apparso sulla rivista
MONDO SOMMERSO dl dicembre 2009.
Il naufragio di Edda Ciano
(testo Cesare Balzi - foto Mauro Pazzi)
Nella baia di Valona, appoggiato su un fondale di 35 metri, giace uno dei più grandi e suggestivi relitti di tutto l’Adriatico, la nave ospedale «Po», affondata il 14 marzo 1941.
Prologo. «La contessa naufragò su questa spiaggia, arrivarono i soldati italiani, la fecero salire su un camion e la portarono via». Inizia così il racconto di Neki, un tempo ufficiale della marina albanese, in seguito comandante di mercantili, valido collaboratore nel 2005 per le mie ricerche all’interno della baia di Valona. La contessa era Edda, primogenita di Mussolini e moglie dell’allora Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, imbarcata nel 1941, in qualità di crocerossina, sulla nave ospedale «Po», una delle 22 navi «bianche» che rimpatriarono ammalati, naufraghi e feriti nel corso della seconda guerra. La spiaggia dalla quale parte il racconto è quella di Radhima, sul litorale albanese, a sud di Valona. Primo nome, Wien. La nave venne varata il 4 marzo 1911 a Trieste nel cantiere Lloyd Austriaco, fu battezzata con il nome «Wien». Il piroscafo, dalle linee classiche degli scafi di quell’epoca, fu adibito al trasporto passeggeri. Con una stazza di 7.289 tonnellate, lungo 134 metri e largo 17, aveva cabine per 185 posti di prima classe, 61 di seconda e 54 di terza. L’apparato motore era costituito da 8 caldaie e 2 macchine a quadruplice espansione; la potenza di 1.580 n.h.p. poteva sviluppare una velocità di 17 nodi. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, dopo essere stata requisita dalla K.u.K. Kriegsmarine, la marina militare asburgica, fu trasformata in nave ospedale e venne danneggiata una prima volta. Dopo essere stata riparata, nel dicembre 1917 venne requisita nuovamente dalla marina austroungarica ed adibita a nave caserma per il personale della marina tedesca imbarcato su sommergibili di base a Pola. La mattina del 1° novembre 1918 il destino della «Wien», ormeggiata all’interno del porto di Pola, si incontrò con quello dei mezzi d’assalto della Regia Marina Italiana. Il primo affondamento a Pola. Due ufficiali, Rossetti e Paolucci, riuscirono a penetrare nel porto a bordo di una «mignatta» un originale mezzo d'assalto semovente, costituito da una parte centrale, contenente il motore, e da due parti estreme, che costituivano le cariche da applicare alle carene delle navi nemiche. Gli operatori avrebbero dovuto raggiungere l'obiettivo a cavalcioni del mezzo e poi, regolata l'orologeria all'ora dell'esplosione, cercare di riprendere il largo per ritornare sul mezzo che li aveva trasportati davanti alla base nemica. All'una del mattino Paolucci e Rossetti, lasciati a mille metri dalle ostruzioni dai MAS 94 e 95, riuscirono a superare gli sbarramenti e si ritrovarono all'interno della base. Attaccarono la «Viribus Unitis», corazzata della marina austro-ungarica e alle 4 e 45, sotto la chiglia di quest'unità, fu sistemata da Rossetti la carica esplosiva che ne provocò più tardi l’affondamento. A causa dell’aumentato chiarore del mattino, furono però scoperti e presi prigionieri da una motobarca austriaca. Per non far cadere in mano al nemico il mezzo da loro genialmente ideato ed impiegato, furono aperte le valvole di affondamento ed attivata la seconda carica. La «mignatta», abbandonata a se stessa e senza governo, andò ad arenarsi in un'insenatura e il suo scoppio provocò l'affondamento del piroscafo «Wien» che vi era ormeggiato. In seguito la nave fu recuperata dalle autorità italiane, requisita come preda bellica e dopo essere stata immatricolata nel 1921, con il nome «Vienna», iniziò il servizio passeggeri per il Lloyd Triestino. Solo nel 1935 venne ribattezzata con il nome «Po» e in seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu requisita il 21 novembre 1940, dalle autorità italiane e trasformata nuovamente in nave ospedale. Dopo aver navigato sul fronte libico, da Tripoli e Bengasi, per rimpatriare i feriti della campagna nordafricana, fu inviata nel febbraio del 1941 nel Basso Adriatico per prestare soccorso ai feriti provenienti dal fronte greco-albanese. Aveva fino a quel momento compiuto 14 missioni e trasportato oltre seimila feriti. 815° Squadrone aereonavale inglese. Uno dei più famosi squadroni dell’aria, composto da aerosiluranti Fairey «Swordfish» della FAA (Fleet Air Arm), l’aviazione della marina britannica, il 12 marzo 1941, fu trasferito dalla portaerei HMS «Illustrious» all’aeroporto di Paramythia, in Grecia, vicino al confine con l’Albania, con l’ordine di effettuare incursioni sui porti di Valona e Durazzo e le basi militari italiane di Berat e Tirana. Alle 21.15 del 14 marzo, gli «Swordfish» si alzarono in volo dalla base, armati ciascuno di un siluro da 730 chilogrammi. Oltrepassarono a diecimila piedi di altitudine la catena montuosa a sud della baia di Valona e raggiunsero il mare, scorgendo così le unità militari e mercantili italiane presenti in quel momento in rada. La notte era chiara ed illuminata dalla luna. Un velivolo, abbassatosi alla quota di cinquemila piedi, dopo aver superato i monti della penisola del Karaburuni, riuscì ad individuare un bersaglio - ben visibile e privo di illuminazione, come il pilota descriverà più tardi nel rapporto - e a lanciare il siluro. Al comando dell’aereo si trovava il tenente Michael Torrens-Spence, il comandante «Tiffy», il quale si convinse di aver ottenuto un successo quando vide una grande fiammata alzarsi dal lato di dritta di una grande nave passeggeri. Erano le 23.15. La notte del 14 marzo 1941. «La nave “spedaliera” – prosegue Neki, pronunciando il nome con cui gli albanesi chiamano il relitto – arrivò quella sera e si ormeggiò nella baia, a un miglio dalla foce del Rio Secco. Da questo punto vicino alla costa, era possibile trasferire sulla nave i feriti che provenivano a bordo di ambulanze e camion dalle baracche dell’ospedale militare n°403 e da quello situato sulle colline, sulla strada che oggi conduce a Radhima». La nave, infatti, oltre ad essere adibita al trasporto, poteva garantire non solo le prime cure mediche, ma vere e proprie immediate prestazioni ospedaliere. Vi erano una sala operatoria, varie sale di medicazione e ambulatori, perfino gabinetti radiologici e laboratori di analisi. Gli ampi spazi delle 4 stive erano utilizzati per calare verso il basso e distribuire ai vari ponti le barelle con i feriti più gravi. «Quella sera c’erano altre navi alla fonda – continua Neki, facendo riaffiorare i ricordi del padre – alcune proprio nelle vicinanze della “spedaliera”, altre più a sud, in fondo alla baia, vicino a Pasha Limani», (le navi più a sud erano i piroscafi «Stampalia» e «Luciano» e la torpediniera «Andromeda», mentre nelle vicinanze a 400 metri di distanza dalla «Po», era alla fonda il «Genepesca II»). Dipinte di bianco, con fasce verdi sulle fiancate e grandi croci sui fumaioli, sempre illuminate e riconoscibili durante la notte, le navi ospedale godevano della protezione delle norme del diritto umanitario, che, tuttavia, in molte occasioni non venne rispettato. Gli accordi internazionali (convenzione dell’Aja 1906 e Ginevra 1907) prevedevano infatti che, per garantire una protezione notturna alle navi ospedale, queste dovessero essere completamente illuminate. Per contro però, una nave illuminata nell’oscurità, poteva essere un segnale di identificazione dell’obiettivo per gli aerei nemici. Se la «Po» fosse stata illuminata, quella notte, avrebbe potuto indicare facilmente le navi vicine, come bersagli legittimi. Il Comando Marina di Valona dette ordine di oscurarla, assimilandola in questo modo a normali piroscafi da trasporto. Edda Ciano, in una intervista rilasciata prima della sua scomparsa avvenuta l’8 aprile 1995, così ricorda quei terribili momenti: «Ero in cabina e stavo leggendo un libro dello scrittore inglese Wodehouse, prima di addormentarmi, quando ad un tratto sentii, insistente e vicino, il rombo degli apparecchi. “Sono i nostri”, riflettei senza particolare emozione, poi, all’improvviso, uno schianto e una botta tremenda: la luce schermata si spense, la nave precipitò nel buio più fitto. “Ahi, non sono i nostri”, pensai con maggiore emozione e corsi fuori in vestaglia, per rendermi conto di ciò che stesse accadendo. La nave era così inclinata che bisognava trovare un solido appiglio per reggersi in piedi; l’acqua arrivava al livello dei ponti. Eravamo stati colpiti da un siluro nemico: si andava a picco, non c’era dubbio». Crimini di guerra? Nel corso della seconda guerra mondiale quasi tutte le navi «bianche» subirono attacchi, specie da parte dell’aviazione inglese. Alcuni si conclusero con l’affondamento altri, i più numerosi, con danneggiamenti e feriti, nonostante nelle Marine di tutto il mondo il principio della solidarietà nei confronti del nemico naufragato fosse legge sacra, assoluta, inviolabile. Gli esempi furono numerosi: la nave ospedale «Arno» che, completamente illuminata, fu affondata da aerei inglesi nel ‘42 a circa 60 miglia a nord di Tobruk; la «Virgilio», la «Principessa Giovanna», e molte altre ancora che, gremite tuttavia di malati e feriti del fronte nord africano, furono attaccate ripetutamente da aerei anglo-americani. Si comprende, quindi, come gli inglesi non accettarono mai il diritto della non inviolabilità delle navi ospedale, ritenendo che, sotto le insegne delle grandi croci, si potesse celare il trasporto di materiale militare illegale e non ospedaliero. La nave «Po», alle ore 23.15, fu gravemente colpita dal siluro lanciato dallo Swordfish del tenente Torrens-Spence. In seguito all’esplosione sulla fiancata di dritta della «Po», si aprì un grosso squarcio che la fece affondare rapidamente e il comandante decise subito di far evacuare la nave. Appena due minuti dopo il siluramento l’acqua del mare cominciò a penetrare dai boccaporti di poppa e quattro marinai rimasero intrappolati, senza via d’uscita, nei locali oramai sommersi. A questi si aggiunsero altre persone fra cui tre crocerossine (le sorelle Federici, Secchi e Tramontani). Dei 240 imbarcati, persero la vita 20 membri dell’equipaggio e oltre alle tre infermiere della croce rossa, una quarta morì per setticemia dopo qualche mese, per aver ingerito acqua mista a nafta. La trentenne crocerossina Edda Mussolini si salvò, naufragando a Radhima, secondo le circostanze descritte da Neki. La chiglia della «Po» si adagiò per la seconda volta sul fondale, come era avvenuto il 1° novembre 1918 quando venne colpita a Pola, ma questa volta ad una profondità di oltre 30 metri. L’altezza dell’albero maestro, tuttavia, era tale che l’estremità affiorava dalla superficie per oltre un metro, indicando così il punto esatto del sinistro. Nei giorni successivi vennero inviate tre unità militari e otto palombari della Marina Italiana lavorarono all’interno del relitto per dieci giorni, per il recupero delle salme. Da allora il relitto giace a meno di un miglio dalla costa albanese. Il relitto perfetto. Si trova sulla sponda orientale di una baia chiusa su tre lati e con una profondità massima al centro di 54 metri, in assetto di navigazione, con la prora rivolta a sud; il fondale sabbioso è di 35 metri; il punto meno fondo sulla coperta è di soli 15 metri. E’ il relitto su cui ogni istruttore vorrebbe portare i propri allievi per fare svolgere ogni genere di corsi, da quelli avanzati a quelli tecnici, dai corsi con miscele all’addestramento in ambiente chiuso, insomma il relitto perfetto! Nonostante la bassa profondità bisogna comunque porre molta attenzione: i numerosi accessi invitano chiunque ad entrarvi, ma va raccomandato quanto sia necessario adottare tutte le procedure utilizzate in immersioni in ambienti ostruiti oltre a possedere un ottimo controllo del proprio assetto, per non alzare nuvole di sabbia e sospensione, che possano ridurre la visibilità delle vie di uscita. Per poterlo apprezzare, sono tuttavia indispensabili diverse immersioni, pianificando quale zona del relitto si vuole esplorare, seguendo le regole della gestione dei gas. Durante la prima immersione è facile lasciarsi assalire dal desiderio di esplorare più punti, pinneggiando così freneticamente senza una meta tra i ponti esterni e gli ambienti interni. E’ consigliabile, invece, per un subacqueo ricreativo dedicare immersioni distinte per l’esplorazione della prora e della poppa, lasciando ai subacquei più esperti l’esplorazione degli ambienti ostruiti. Data la profondità sono adatte miscele iperossigenate che però attualmente non sono ancora reperibili sul territorio albanese. La visibilità è spesso buona, tanto che in assenza di vento e corrente, dalla superficie si intravede la sagoma del relitto, ma data la poca profondità che ci divide da esso e la lunghezza dello scafo (oltre 130 metri!) non si riesce a percepire da prora a poppa. E’ incredibile come, dopo circa settant’anni, la «Po» appaia ancora in grado di solcare il mare! In assetto di navigazione, le eliche semi affondate nella sabbia, le ancore sistemate come in quella tragica notte. L’immersione. La prua è perfettamente verticale; nell’occhio di cubia di dritta è alloggiata un’ancora, in quello di sinistra scendono le maglie della catena che manteneva la nave alla fonda e che prosegue oggi in orizzontale sul fondale sabbioso allontanandosi dallo scafo per oltre 50 metri. Lasciata la prora, procedendo verso poppa, si può notare lo stato di conservazione della coperta, tanto che in alcuni punti sono presenti i resti della gomma posta fra le tavole di legno. Superati gli argani e due stive, si arriva all’imponente cassero. E’ possibile entrare con facilità e muoversi in quello che una volta era il ponte di comando, siamo esattamente sopra le cabine di prima classe, all’interno delle quali ci si può lasciar calare. Ora l’assenza dei pavimenti rende questi ponti un unico ambiente e restano divisi solo dalle strutture metalliche su cui era poggiato il legno, tutto intorno vetrate ormai distrutte, da cui entra la luce esterna creando dei suggestivi giochi di luce. E’ un luogo sommerso in cui tutto sembra essersi fermato e per alcuni istanti la mente del subacqueo, tra quelle pareti e in quelle stanze ben riconoscibili, sotto ai ventilatori ancora appesi ai soffitti, tra pile di piatti, tazze da colazione ancora infilate l’una nell’altra, bicchieri, e poi tra ampolle, bottiglie, fiale, strumenti ospedalieri e letti ammassati, riesce a fare un salto indietro nel tempo ed «immergersi» nella storia. All’esterno dello scafo, procedendo verso poppa si possono notare nella parte alta le gru delle scialuppe e, subito sotto, due piani di corridoi esterni. Anche nella zona poppiera la coperta è perfettamente integra e uscendo all’esterno dello scafo è possibile apprezzare l’elegante profilo della poppa e del timone alto più di 10 metri. Le eliche sono parzialmente insabbiate ma ancora visibili a circa 30 metri di profondità. La falla provocata dal siluro si trova a centro dritta ma bisogna porre molta attenzione, per poterla vedere ci si deve avvicinare al fondale dove la visibilità si riduce spesso notevolmente e la presenza di una grossa rete, distante pochi metri dal relitto ed in parte sospesa, ne eleva la pericolosità. Per non perdere l’orientamento, in condizione di ridotta visibilità, è meglio quindi dedicarsi all’esplorazione del relitto sulle sovrastrutture. Epilogo. L’oscuramento del relitto della «Po» è proseguito negli anni successivi alla data del suo affondamento. L’isolamento politico dell’Albania sotto il regime dittatoriale di Enver Hoxha e le tragiche vicende socio-politiche del ‘91 e del ‘97, hanno tenuto l’occidente lontano da questo paese per lungo tempo. La vicenda della nave ospedale «Po» è riemersa dapprima nel 2005, nel corso di una spedizione ufficiale condotta in Albania dalla IANTD; più recentemente il relitto è tornato ad illuminarsi sotto i riflettori dei programmi televisivi Linea Blu e TG2 Dossier. In questi ultimi anni, tuttavia, l’Albania dopo aver compiuto grossi sforzi per uscire da una grave crisi economica, propone le proprie coste come una sicura meta turistica. Ancora molto sforzi andranno compiuti per soddisfare l’esigenze di un pubblico subacqueo, ma le diverse tipologie d’immersione che l’Albania può offrire - pareti, grotte e relitti – costituiscono una valida alternativa a due passi da casa nostra.
SCHEDA TECNICA NAVE PO (ex VIENNA – ex WIEN)
ISCRIZIONE: Compartimento Marittimo di Napoli con matricola n. 482.
STAZZA: 7.289 ton.
DISPONIBILITA’ DI CARICO: 2.726 ton.
VARATA: 4 marzo 1911 nel cantiere Lloyd Austriaco di Trieste
APPARATO MOTORE: 8 caldaie e 2 macchine a quadruplice espansione.
POTENZA: 1.580 n.h.p.
VELOCITA’: 17 nodi
DIMENSIONI: lunghezza 134 m, larghezza 17 m, pescaggio 12 m
SCHEDA TECNICA FAIREY “SWORDFISH”
PAESE D’ORIGINE: Gran Bretagna
ENTRATA IN SERVIZIO: 1936
TIPO: aerosilurante, bombardiere, ricognitore
EQUIPAGGIO: tre uomini
DIMENSIONI: apertura alare 13,9 m, lunghezza 10,9 m, altezza 3,7 m
PESO: a vuoto 1900 kg (a pieno carico 3.500 kg)
APPARATO MOTORE: Bristol Pegasus III M3 da 690 hp
VELOCITA’: massima 248 km/h
QUOTA OPERATIVA: 5867 metri
AUTONOMIA: 1610 km
ARMAMENTO: una mitragliatrice Vickers K da 8 mm e secondo la configurazione un siluro da 730 kg, una mina da 700 kg, o tre bombe da 500 kg, o sei da 250 kg